Porte aperte

I segreti dei libri raccontati dai loro autori

Per quanto una qualsiasi opera d’arte sia in grado di parlare di sé e/o del proprio autore in autonomia, è innegabile che un apporto ulteriore da parte di quello stesso autore in merito alla sua creazione può aprire nuove porte nella strada della comprensione. Ovviamente l’autore deve sapersi trattenere dall’aprire eccessivamente quelle porte per non far cadere il livello di oggettivo interesse per l’opera, ma rimane libero di guidare i meno attenti verso la ricezione delle caratteristiche più evidenti, dei dettagli più significativi e può fornire ai più interessati spunti per una più accurata analisi.

Durante l’incontro, telematico, del mattino del 2 ottobre 2021 Kader Abdolah, Maylis de Kerangal e Nicola Lagioia, hanno, nell’ordine, avuto l’opportunità di fare le inevitabili cose descritte sopra.

L’incontro non ha deluso le aspettative mostrando punti di vista geniali, trasmettendo sensazioni vive e profonde e dando prova del fatto che anche un libro all’apparenza semplice e relativamente trasparente può celare dentro di sé le avventure più incredibili e le volontà più nobili.

In particolare la sorpresa più grande è stato l’incontro con l’autore de Il sentiero delle babbucce gialle, il quale, seppur nella sua vivace simpatia, ha portato alla luce una battaglia molto più dura e reale di quella narrata nel libro, di quella percepibile. Le avventure del protagonista Sultan prendono infatti pieno senso grazie alle parole di Kader Abdolah che ricavano dalla storia la forza per librarsi verso temi ancora più alti che si intrecciano in un racconto che non è solo quello di un ragazzo e poi di un uomo che cavalca la sua vita, ma anche e soprattutto quello di una lotta per raggiungere e superare gli antichi sommi scrittori persiani, una lotta per vincere la barriera imposta dalla lingua, una lotta per narrare le gesta di donne dal potere palpabile, una lotta per dare alla realtà ciò di cui ha bisogno, ossia la possibilità di spiegare se stessa. Molto interessante poi la precisazione riguardante i personaggi del romanzo. Essi, a dire dell’autore, sembra che parlino, ma in realtà sono muti, muti come suo padre, grazie al quale egli ha modo di aprire una parentesi diretta in particolare agli studenti: ciò che consideriamo un peso, un macigno può rivelarsi in futuro sì un macigno, ma un macigno d’oro.

Maylis de Kerangal, a differenza del primo intervistato, si è limitata ad esporre la parte a monte del suo libro. Un libro che appare abbastanza limpido (pur nella sua grandezza), ma che senza la consapevolezza della storia, del lavoro ma soprattutto della volontà che lo hanno partorito, potrebbe apparire stracolmo di inconsistenza. La de Kerangal spiega che il libro nasce da un lungo processo di ricerca e di preparazione, con la finalità di creare un’opera che fosse paladina della sua battaglia contro la banalità, contro l’appiattimento della lingua e che sapesse dare l’emozione di riscoprire dei mondi perduti. La precisione, poi, concorre a delineare meglio, a portare in vita il personaggio e le sue avventure. Il tutto scorre in un vortice di termini che attingono dal mondo dell’arte e questo viene spiegato dalla scrittrice con una semplice associazione di parole. I ciechi sentono la realtà con una percezione del colore che rimane viva. La realtà (qui la scrittrice si appoggia ad un concetto già espresso da Kader Abdolah) necessita della finzione per essere raccontata. Dunque è evidente la vicinanza tra finzione e colore.

Quando la parola passa a Nicola Lagioia, si assiste alla sorprendente presentazione di un’altra associazione, diversa, quella tra i crudi fatti raccontati nel libro e la sacralità nella quale il tutto potrebbe essere collocato. Si parte infatti da un’azione, totalmente insensata nella sua sfrenata tragicità, che viene definita dallo scrittore come una specie di «omicidio rituale» durante il quale una forza superiore ha come posseduto i due carnefici; e si arriva ai «gesti sacri» compiuti dai genitori della vittima di fronte alla tomba del figlio, che imprimono nello scrittore la cognizione della necessità di fermarsi nella sua trattazione del caso. Si comprende quindi, grazie alle sue parole, la difficoltà, data non solo dalla vicinanza territoriale, ma anche e soprattutto da quella emotiva all’evento.

In conclusione, l’incontro con alcuni degli scrittori finalisti è stato una gran cosa. Ha dimostrato la sua utilità e si è rivelato anche un’occasione di crescita non inferiore a quella legata alla lettura dei testi stessi.

Francesca Abruzzese Saccardi (5Bsca) e Brian Nadin (4Csca)